Nessuno poteva sapere cosa l’umanità creativa e il cuore d’artista di Morden Gore avrebbero donato alla città. Il tutto costruito nell’ombra della discrezione e nell’invisibilità, rafforzata da una membrana che proteggeva l’intimo spazio artistico dal popolato palcoscenico. Eppure dentro la storia della città e della serata. In solitudine, ma anche in collegamento. In comunicazione e in silenzio. Un po’ come tante storie di durezza e di fragilità che finiscono nelle zone di invisibilità e che riemergono grazie al lavoro sociale oppure fanno irruzione nella vita della città solo attraverso la dimensione tragica. E quasi ad indicare che la Macerata Che Sarà è già contenuta nella Macerata che già è, così come la Macerata Che Sarà, quando sarà, in parte sarà anche la Macerata di oggi.
Oggi la Macerata che già è e che si va costruendo ha un’opera d’arte da guardare ma soprattutto un volto da cui lasciarsi guardare. Un volto che consente e per certi esige uno “sguardo di ritorno”. Come ci ricorda Ivo Lizzola, un volto ha anche i lineamenti della comunità che lo esprime e che condivide il tempo, le fatiche, la ricerca di vita e di verità delle donne e degli uomini del territorio nel quale si raccoglie. Ha il volto della presenza, della capacità di testimonianza e di segno, di accompagnamento e annuncio. Tutto ciò è un’occasione preziosa per cogliere elementi importanti del nostro volto; è importante che ci lasciamo guardare, che cogliamo “lo sguardo di ritorno” su di noi, sulle nostre azioni, sulle nostre intenzioni e relazioni.
Walter Benjamin diceva che la società, la modernità tecnologica, la nostra civiltà occidentale rischiano di aver perso l’aura, cioè la capacità degli uomini e delle donne di cogliere l’aura delle cose, il riverbero, la lucentezza, il senso delle cose che ti vengono offerte. Lui diceva: “Abbiamo coltivato talmente lo sguardo che misura, controlla, prende la realtà che non cogliamo più lo sguardo di ritorno della realtà”. La realtà è talmente costruita dai nostri processi mentali, dalle nostre formalizzazioni, dalle nostre capacità analitiche di sezionare ad esempio i colori, che finisce l’emozione”.
Abbiamo di fronte un volto femminile che chiede la forza di reggere lo sguardo, in una reciprocità simmetrica che non scarta l’accoglienza e la cura. Un volto giovane che richiama la necessità di tessere relazioni generative tra le diverse generazioni, comprese le “generazioni della fine”, che spesso riteniamo inutili perché non più efficienti e produttive e quelle “dei nuovi inizi” che coltiveranno e custodiranno la Macerata che allora sarà. Un volto “meticcio” che inibisce ogni possibile esaltazione della purezza delle origini, qualunque retorica sulle identità “concluse” e da difendere dall’assalto dei nuovi barbari. Un’apertura all’incontro con l’altro irrimediabilmente altro, non solo perché diverso per genere, generazione, genio e provenienza, ma perché semplicemente persona “altra”. Un volto che mentre si fa si disfa, quasi a consegnare un’idea di umanità fragile. Eppure attorno a questa fragilità si può costruire una alleanza, una città.
In questa prospettiva la luce (Dante Ferretti) aiuta a vedere e a offrire sguardi di ritorno. Per una città è essenziale la giusta luce per cogliere gli “sguardi di ritorno” della memoria incapsulata e restituita nelle grandi opere monumentali e nelle diverse produzioni artistiche. Così come una città ben illuminata può favorire lo sguardo di ritorno tra le diverse esperienze dell’abitare la città fino a potersi scoprire come con-cittadini. Una città illuminata in maniera intelligente si propone come paesaggio notturno e può consentire la costruzione di una rinnovata relazionalità.